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Le badanti e le microspie nelle case dell’assistito

Sappiamo fin troppo bene che molte volte quando un soggetto si serve di un domestico come una babysitter, una colf ad ore o una badante convivente, spesso non rispetta i dettami legislativi: infatti, v’è l’obbligo per il datore di lavoro di istituire un regolare contratto di lavoro subordinato. Ciò determina situazioni scomode ed imbarazzanti che non tutelano la badante e non favorisce neppure le famiglie.

In effetti, non è detto che quest’ultime siano al sicuro semplicemente pagando meno: un servizio pienamente efficiente è solo quello che protegge i diritti di tutti. Può dunque fare qualcosa la collaboratrice domestica per provare il rapporto di lavoro esistente nel caso in cui la situazione dovesse degenerare e finire in giudizio? La risposta è positiva e viene direttamente dalla Suprema Corte di Cassazione. In poche parole: basta servirsi di un video o di un registratore.

La pronuncia della Corte di Cassazione si è espressa in favore dei collaboratori domestici, qualora questi ultimi abbiano delle prove per dimostrare il loro rapporto di lavoro e per far sì che lo stesso venga regolarizzato. Si tratta di una sentenza rivoluzionaria, attraverso la quale i giudici hanno stabilito che una colf può utilizzare registratori e telecamere in casa del datore di lavoro per costruirsi delle prove ad hoc a dimostrazione del fatto che presti lavoro tra quelle mura.

Le prove possono dunque essere utilizzate in un possibile processo anche solo per chiedere arretrati, buonuscita e ferie. E cosa ne è della privacy del nucleo familiare?

La Cassazione si è espressa anche su questo e ha stabilito i presupposti da rispettare: innanzitutto la collaboratrice domestica deve essere presente nel momento in cui registra; inoltre, tra le scene riprese non devono rientrare azioni di vita privata che non riguardano la situazione della diretta interessata/dipendente. Essenziale ai fini della punibilità ai sensi dell’articolo 615 bis del codice penale è che non vengano registrati momenti privati non attinenti al lavoro della domestica.

Pertanto oggi gli orientamenti giurisprudenziali sono sempre più all’avanguardia nel settore del lavoro domestico e prediligono la tutela della badante in lotta al lavoro nero. Tuttavia, la stessa regola non vale per il datore di lavoro: secondo la Cassazione infatti resta punibile il comportamento del datore di lavoro o del padrone di casa che utilizza gli stessi strumenti tecnologici di controllo per tenere d’occhio l’operato della badante.

Trattasi di una violazione delle norme dello Statuto dei lavoratori in quanto è illlecito controllare a distanza i dipendenti. Vieppiù, sulla stessa lunghezza d’onda i giudici hanno spiegato, già in passato, che il proprietario della casa non può utilizzare alcun strumento di ripresa per filmare o registrare ospiti occasionali e conviventi in sua assenza: quest’ultima provoca nei terzi la tranquillità di non essere visti o sentiti, per cui si concedono un gesto in più, intimo e personale, appartenente al margine di privacy che non si può violare.

Neppure importa che nei filmati finiscano i mobili, l’arredo, magari dell’argenteria o l’interno dei guardaroba con la biancheria intima, perchè non c’è alcuna interferenza nella vita privata. Ebbene da oggi in poi la colf in nero potrà incastrare più facilmente il proprio datore di lavoro. Lo scopo ovviamente è quello di precostituirsi la prova per poter in un successivo processo chiedere gli arretrati, la buona uscita e le ferie.

Eccezioni per i datore di lavoro sulla videosorveglianza

Vi è la possibilità anche per i datori di lavoro domestico di installare impianti audiovisivi di videosorveglianza, ma escludendo l’applicazione dell’art. 4 co. 1 della L. 300/1970 in quanto non è possibile che ciò avvenga tramite stipula di accordo sindacale o autorizzazione dell’Ispettorato stesso.

Nell’ambito del lavoro domestico quindi è sufficiente rispettare la normativa sulla privacy (D.Lgs. n.196/2003) che prevede in capo al lavoratore il diritto alla riservatezza e quindi l’obbligo per il datore domestico di informare il collaboratore ed ottenere il consenso preventivo circa l’installazione di apparecchiature di videosorveglianza. Se invece il datore installasse i dispositivi in un momento successivo a quello dell’assunzione senza il consenso del collaboratore verrebbe meno la fiducia tra le parti indispensabile per il proseguimento del rapporto di lavoro. Di conseguenza le parti potranno recedere dal contratto precedentemente stipulato.

Resta applicabile l’art. 8 della L. 300/70 che disciplina il divieto di effettuare indagini sul profilo del lavoratore che non riguardino in modo diretto l’attività lavorativa svolta. Invece, quando le apparecchiature siano installate con lo scopo di evitare possibili attività criminali, come il furto di oggetti preziosi o comportamenti violenti nei confronti della persona assistita. In questo particolare caso la giurisprudenza stabilisce che non è necessario il consenso del collaboratore e nonostante la mancanza di questo le prove ricavate dalla registrazione degli impianti potrebbero essere validamente utilizzate in sede di processo penale.

Se però con la scusante di evitare possibili attività criminali da parte del collaboratore ci si accorge che quest’ultimo non svolge le sue mansioni come stabilito al momento della stipula del contratto di assunzione, non è possibile utilizzare le prove raccolte per un eventuale ricorso al giudice del lavoro. E’ importante dunque che venga sensibilizzata l’informazione sia nei confronti delle famiglie che delle badanti per poter rendere noti questi strumenti di tutela fondamentali durante la collaborazione.

Prevenire è meglio che curare ed informare è meglio che rischiare.

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